venerdì 10 gennaio 2014

Arrivare alla pacificazione

« Il tenore di vita raggiunto nelle aree industriali più avanzate non è un modello conveniente di sviluppo se l'intento è di arrivare alla pacificazione. Di fronte a ciò che tale tenore ha fatto dell'Uomo e della Natura, ci si deve nuovamente chiedere se ciò valesse i sacrifici e le vittime fatti in sua difesa. Questa domanda non appare più irresponsabile dacché la “società opulenta” è diventata una società mobilitata in permanenza contro il rischio dell'annichilazione, dacché la vendita dei suoi beni è stata accompagnata dall'istupidimento, dal perpetuarsi della fatica, e dalla promozione della frustrazione.
Date queste circostanze, la liberazione dalla società opulenta non significa tornare ad una salutare e vigorosa povertà, alla pulizia morale, e alla semplicità. Al contrario, l'eliminazione dello spreco redditizio aumenterebbe la ricchezza sociale disponibile per essere distribuita, e la fine della mobilitazione permanente ridurrebbe il bisogno sociale di negare le soddisfazioni che sono proprie dell'individuo – negazione che è ora compensata dal culto dell'efficienza fisica della forza, e dalla uniformità.
Oggi, nel prosperoso stato della guerra e del benessere, le qualità umane tipiche di un'esistenza pacifica sembrano asociali e antipatriottiche; intendo qualità come il rifiuto di ogni durezza, cameratismo e brutalità; la disobbedienza alla tirannia della maggioranza; il far professione di paura e di debolezza (la reazione più razionale a questa società!); una intelligenza sensibile nauseata da ciò che viene perpetrato; l'impegno in azioni, di solito deboli e poste in ridicolo, di protesta e di rifiuto. Anche queste espressioni di umanità verranno guastate da qualche necessario compromesso – dal bisogno di coprirsi, d'essere capace di imbrogliare gli imbroglioni, e di vivere e pensare a dispetto di questi. Nella società totalitaria gli atteggiamenti umani tendono ad assumere carattere d'evasione, a seguire il consiglio di Samuel Beckett: “Non aspettare ti sia data la caccia per nasconderti”. »

Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione, (1964), Einaudi, Torino 1967, pag. 251-2 (traduzione di Luciano Gallino e Tilde Giani Gallino).

Io ambirei tanto a essere pacificato - e, in un certo senso, lo sono. Lo sono quando, intimamente, mi convinco di possedere quelle che Marcuse chiama qualità umane. Allo stesso tempo, però, ravviso che ciò non basta, che questo è un compromesso, un mero tentativo di nascondimento e/o di evasione. Là fuori c'è un mondo come non dovrebbe essere dato che, potenzialmente, potrebbe essere diverso, soprattutto se non fosse guidato, controllato, non tanto da certe brutte facce, quanto da certe pratiche, considerate le sole possibili, le uniche in grado di garantire libertà e sviluppo, crescita, alla società umana. 
«Si è svolto questa mattina al Ministero degli Affari Esteri l'International Business Advisory Council (IBAC) con una folta partecipazione degli esponenti del Sistema Italia assieme ad ottanta  amministratori delegati di multinazionali e di fondi di investimento.» [via]
Io li ho visti com'erano seduti in sala gli ottanta ad ascoltare con attenzione, alla Farnesina, quali e quante mercanzie italiane saranno tra pochi giorni messe sul mercato - e m'è presa subito la voglia matta di essere Buňuel.
Nienta da fare: non sono affatto pacificato.

3 commenti:

Olympe de Gouges ha detto...

marcuse è un critico laterale, da quello che ricordo non va mai alla radice della questione

Luca Massaro ha detto...

Hai notato da chi fu tradotto il libro? Da un altro esimio e illustrissimo "laterale" (comunque, ce ne fossero oggi tanti così, laterali, ché a forza di girare intorno al problema, alla fine è inevitabile precipitarvi dentro).

Olympe de Gouges ha detto...

già