venerdì 17 gennaio 2014

La solitudine dei lampioni

«La vera storia iniziò una sera gelida, mentre ascoltavamo piovere ognuno era immobile e contratto, dimentico dell'altro. C'era una stretta sbarra di luce gialla sull'uscio del bagno e io ricostruivo la solitudine dei lampioni nella piazza e sul lungofiume, i fili perpendicolari della pioggia senza vento. La storia iniziò quando lei disse all'improvviso, senza muoversi, quando la voce emerse perdurò nella penombra, mezzo metro sopra di noi:
- Cosa importa se sta piovendo, anche se piove così per cent'anni questa non è pioggia. Acqua che cade, ma non pioggia.
C'era stato, sempre prima, il grande sorriso invisibile della donna, e sono sicuro che lei non parlò finché il sorriso non fu totalmente formato e le occupò il viso.
- Nient'altro che acqua che cade e la gente deve darle un nome. Sicché in questo paesino o città chiamano pioggia l'acqua che cade; ma è una bugia».
Juan Carlos Onetti, Triste come lei, Einaudi, Torino 1981 (pag. 90, traduzione di Angelo Morino)

Parlare di nulla e di nessuno, discutere di niente, rintanarsi, convincersi che non serve a niente cercare soluzioni per problemi che non esistono, giacché non esiste niente, tutto è così transitorio, persino questo cazzo in culo di traverso che ti è capitato per caso, la vita, che cosa vuoi che sia, la sorte, il destinaccio 'nfame, non significa nulla, non v'è una particolare differenza rispetto a coloro che, invece, il cazzo l'hanno preso dritto, con l'olio di mandorle profumato di lavanda e ylang ylang, godranno anziché patire e poi, il conto, alla fine, il saldo, sarà per tutti negativo, è un gioco a somma zero, la vita, basta dare un'occhiata sopra il cielo, vuoto di stelle e di pianeti che non dicono un cazzo più a nessuno, privati come sono delle fantasie bambine con le quali tentavamo di consolarci. 
Però, tra il patire e il godere, la differenza esiste eccome, nel qui e ora, ne devi convenire, inutile confortarti che in fondo tutti abbiamo lo stesso capolinea. Un conto è viaggiare in una strada ferrata confortevole, in vagoni da Orient-Express,  e un conto è, nelle cuccette, sfinirsi nel puzzo di sudore extracomunitario ubriaco e tossico, tra gente che starnuta a spruzzo, rantola di tosse e scorreggia marciume.
Lottare già per questo, in prospettiva personale, uscire dai miasmi può essere una mezza vittoria. Eppure è nella miseria che s'affetta, nella rappresentazione del tremore e del timore in vita per un sì o per un no, che più ci s'approssima a un barlume di senso, il senso di essere tra i giusti, ché nella piattezza della vita confortevole che devia il pensiero altrove e tiene la lingua a freno, vi si ravvisa una certa promiscuità con la menzogna di credere che la vita sia diversa da quella che si vede, che alla fine della corsa ci aspetta un premio da incassare per la nostra dabbenaggine.
Tutte le cose hanno un nome, anche se, spesse volte, è un nome falso.

1 commento:

Olympe de Gouges ha detto...

il venerdì sera dai il meglio, non credo sia casuale