Son rimasto male oggi nel leggere della morte di Franco Volpi. Chissà quante cose aveva in cantiere per Adelphi, quante ricerche da completare, quante traduzioni.
Bello il ricordo che ne fa l'amico Antonio Gnoli su Repubblica, di cui riporto questo passaggio:
«Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: "Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride". Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt'altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.»
Per parte mia, trascrivo queste parole tratte da un saggio introduttivo di Volpi intitolato Itinerarium mentis in nihilum: [tratto da Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi]
«Anziché andare alla ricerca di colpevoli, come fanno coloro che non hanno ancora avvertito la gravità della situazione, sia Heidegger che Jünger bevono il calice fino in fondo, si fanno carico cioè dell'accusa di nichilismo, cercando di "sperimentare su di sé l'enorme potenza del niente". Essi la sollecitano, convinti che solo col suo compimento sia dato anche il suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento. Questo non vuol dire, né per Heidegger né per Jünger, azzardare congetture; si tratta piuttosto, per entrambi, "di lascir sgorgare le fonti di energia ancora intatte e di fare ricorso a ogni ausilio, per reggersi "nel vortice del nichilismo".
Ma come individuare queste fonti di energia? Qui l'itinerario dei due, di nuovo, diverge. Né si ricongiungerà nei successivi contatti. Jünger tenta l'indicazione di un punto di resistenza al quale i suoi scritti successivi si abbarbicano con sempre maggiore tenacia, ma che già qui è individuato con soverchia chiarezza: "Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta". Heidegger è assai più vigile e guardingo: non vi sono punti archimedici, perché "ormai solo un dio ci può salvare". Se mai un punto d'appoggio sarà possibile, esso non è da cercare in pectore, ma tutt'al più nel pensiero.
Vale allora in conclusione, a illustrare convergenze e differenze, a riassumere questo memorabile itinerarium mentis in nihilum del ventesimo secolo, quello che Gottfried Benn esprimeva nei suoi versi composti all'indirizzo di Jünger:
Bello il ricordo che ne fa l'amico Antonio Gnoli su Repubblica, di cui riporto questo passaggio:
«Di tutti i viaggi fatti, di tutte le persone incontrate, di tutte le esperienze condivise - i luoghi, gli individui, i libri - mi resta chiarissima una frase che amava ripetere: "Sbagliano quelli che pensano che la vita si spiega con la filosofia. Per quanti sforzi il pensiero faccia, il risultato è sempre lo stesso: la filosofia arranca dietro la vita che se la ride". Volpi pensava da filosofo, ma agiva da uomo che vede il mondo andare in tutt'altra direzione. Era convinto che i filosofi avessero perso la curiosità, il gusto di meravigliarsi, di lasciarsi sorprendere, di gioire del nuovo. Credevano di avere in pugno il mondo e avevano in pugno solo se stessi.»
Per parte mia, trascrivo queste parole tratte da un saggio introduttivo di Volpi intitolato Itinerarium mentis in nihilum: [tratto da Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, Adelphi]
«Anziché andare alla ricerca di colpevoli, come fanno coloro che non hanno ancora avvertito la gravità della situazione, sia Heidegger che Jünger bevono il calice fino in fondo, si fanno carico cioè dell'accusa di nichilismo, cercando di "sperimentare su di sé l'enorme potenza del niente". Essi la sollecitano, convinti che solo col suo compimento sia dato anche il suo esaurimento e, con esso, la possibilità del suo superamento. Questo non vuol dire, né per Heidegger né per Jünger, azzardare congetture; si tratta piuttosto, per entrambi, "di lascir sgorgare le fonti di energia ancora intatte e di fare ricorso a ogni ausilio, per reggersi "nel vortice del nichilismo".
Ma come individuare queste fonti di energia? Qui l'itinerario dei due, di nuovo, diverge. Né si ricongiungerà nei successivi contatti. Jünger tenta l'indicazione di un punto di resistenza al quale i suoi scritti successivi si abbarbicano con sempre maggiore tenacia, ma che già qui è individuato con soverchia chiarezza: "Il proprio petto: qui sta, come un tempo nella Tebaide, il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui ognuno, di qualunque condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta". Heidegger è assai più vigile e guardingo: non vi sono punti archimedici, perché "ormai solo un dio ci può salvare". Se mai un punto d'appoggio sarà possibile, esso non è da cercare in pectore, ma tutt'al più nel pensiero.
Vale allora in conclusione, a illustrare convergenze e differenze, a riassumere questo memorabile itinerarium mentis in nihilum del ventesimo secolo, quello che Gottfried Benn esprimeva nei suoi versi composti all'indirizzo di Jünger:
"Dall'esterno siamo spesso legati,
dall'interno per lo più separati,
ma di quello che secolo si chiama,
dividiamo il flusso, le ore,
l'ecce, la follia, le piaghe".»
dall'interno per lo più separati,
ma di quello che secolo si chiama,
dividiamo il flusso, le ore,
l'ecce, la follia, le piaghe".»
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