«Portare il velo potrebbe essere preso come un atto militante, come propaganda religiosa unita a discriminazione sessuale, soggetto per sua natura a provocare manifestazioni e reazioni di segno contrario. La kippah può richiamare la kefiyah, la croce può richiamare la mezzaluna, così come ieri il pugno chiuso richiamava il braccio teso. Mutatis mutandis, una insegna della Coca-Cola o della Nike può diventare una contro-pubblicità per la Pepsi-Cola o l'Adidas, perché una cosa sono le marche sui quaderni e le etichette su scarpe e camicie, un'altra sono i cartelloni e i manifesti pubblicitari sui muri. Oggi ci si mettono anche le marche a favorire la formazione di tribù rivali, che ormai sono fatte solo di giovani consumatori. Ogni identità comunitaria si impone per differenza, e ogni ostentazione di differenza ne fa nascere un'altra di segno opposto. Dobbiamo prevenire questa escalation senza fine di rivalità che i prodotti messi a disposizione dal mercato consentono di declinare in maniere infinite».
[...]
«La sfera domestica non deve invadere gli spazi pubblici¹, perché questi, per svolgere la propria funzione specifica, devono tenere ciò che concerne l'ambito intimo entro certi limiti. Noi ci togliamo le scarpe quando entriamo in una moschea, senza per questo convertirci all'Islam. Chiedere a dei praticanti di togliere il copricapo e ogni genere di simbolo alla porta degli istituti scolastici² - tanto più in classe - non significa imporre loro di rinunciare a ciò che sono, e ancora meno obbligarli a convertirsi a un credo che non è il loro. Significa chiedere di rispettare la natura particolare che la nostra Storia ha conferito al luogo nel quale chiunque può entrare come vuole senza distinzioni».
Régis Debray, Cosa ci vela il velo?, Castelvecchi, Roma 2007, [pag. 17-8 e pag. 27]
¹Qui Debray si riferisce alla Scuola.
²Ah, la France!
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