«Nelle culture primitive il discorso sull'invidia era al contrario [rispetto alla nostra società che lo “rimuove”] onnipresente, collegato alla stregoneria, e paralizzava ogni miglioramento nella sfera umana, costituendo un ostacolo insormontabile a qualsiasi innovazione. E prendeva anche la forma di “invidia degli dei”: tra i successi essenziali, anche se involontari [sic!], del cristianesimo c'è quello di avere disposto il mondo a saper accogliere le innovazioni, essendo stato il primo a proporre decisamente all'uomo esseri soprannaturali che non invidiassero l'essere umano. Scrive H. Schoeck [L'invidia e la società, Liberilibri] che “il merito storico dell'etica cristiana fu di aver stimolato e difeso in Occidente, appunto attraverso l'imbrigliamento dell'invidia, la forza creativa dell'uomo”. E non solo: come afferma Bacone, l'unico contravveleno all'invidia è la compassione». Lucetta Scaraffia, «Nuovi salotti, regni d'invidia». Domenica del Sole 24 ore, 13 giugno 2010, pag. 26
Da notare di passata che, in precedenza, la Scaraffia aveva citato René Girard indicandolo come uno dei pochi intellettuali capaci d'indagare con pertinenza i bassifondi del desiderio umano. Ma se ho ben imparato la lezione girardiana, occorre dire perché le culture primitive erano “paralizzate” dall'invidia; l'invidia crea conflitto, tensione, scontro: in breve, l'invidia è un elemento capace di suscitare violenza indifferenziata, fenomeno, questo, che le società tribali temevano come la peste perché sapevano che essa rischiava di far saltare tutte le procedure rituali, unici mezzi con cui i “primitivi” cercavano di contenere la violenza. E per le culture primitive anche la competizione o la concorrenza - elementi fondamentali per far progredire le società umane - non potevano uscire dai confini rituali perché richiamavano il conflitto, la tensione, la lotta tra fratelli nemici. Tuttavia, passare dalle culture primitive al cristianesimo e non citare come, per esempio, tra i Greci e tra i Romani il discorso sull'invidia fosse certamente evoluto e contemplasse non solo mezzi religiosi, ma anche filosofici e letterari, è un salto storico non accettabile nemmeno nella sintesi di un articolo di giornale. Ma si sa, la fretta di elogiare gli “involontari” metodi del cristianesimo può giocare brutti tiri anche a degli storici di professione.
Forti dubbi nutro poi sul fatto che il cristianesimo sia stato il primo a proporre all'umanità «esseri soprannaturali che non invidiassero l'essere umano»: dopo aver felicemente constatato che una “cattolica” come la Scaraffia faccia una velata ammissione del politeismo cristiano, non posso però non rilevare ch'ella dimentica del tutto la radice ebraica del cristianesimo, come se Jahvé non avesse svolto alcun ruolo nel “presentarsi” come un dio diverso. Ma tutto si gioca in quei successi “involontari” non sapendo bene se la Scaraffia lo dica sulla base delle sue letture girardiane: infatti, se di innovazione sul piano religioso e sul piano di una graduale evoluzione dell'umanità dalla barbarie alla società civile si può parlare, questo non è un successo involontario del cristianesimo, ma un “successo” malgrado il cristianesimo (soprattutto da quando divenne religione ufficiale dello Stato).
Infine, anche se l'ha detto Bacone, dire che l'unico contravveleno all'invidia sia la compassione, mi pare un errore. Questo perché l'invidioso della compassione altrui se ne fotte alla grande. L'unico modo efficace di combattere l'invidia (da non confondere con il pungolo per una sana competizione) è un'autentica rivoluzione-conversione, ovvero l'ammissione dell'invidioso ai suoi occhi di tale malsano desiderio, e della necessità di abbandonarlo, pena la caduta nel mondo del sottosuolo.
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