Ho appena finito di leggere, di José Saramago, Cecità, Einaudi, Torino 1996 [trad. Rita Desti]. Era tempo che non leggevo un libro con tanta angoscia. Sì, angoscia, la mia, di un lettore che s'è lasciato letteralmente prender per mano dall'Autore, ne è rimasto “vittima”. Non che non abbia notato la superba ironia, il giocare continuo cogli stereotipi linguistici ribaltandoli in una situazione catastrofica come quella rappresentata. Ma la quantità di merda, di fame e di violenza reimpastate per la creazione di un mondo apocalittico, dopo la “distruzione” della normalità del mondo, è stata per me come un pugno allo stomaco e ho inseguito, pagina dopo pagina, l'ultima pagina con smania ossessiva, come raramente m'era capitato prima. Volevo “finire” il libro, arrivare alla sua ultima alba per riposare la mente, per rivedere la luce là fuori, come l'unico personaggio al quale è concesso di vedere nel mondo dei ciechi: la moglie del medico. Questo libro mi ha attraversato così tanto che, per un po', quando berrò un bicchier d'acqua, non potrò non ripensare a quel bicchiere riempito con l'acqua del deposito dello sciacquone.
«Ecco come sono le parole, nascondono molto, si uniscono pian piano fra di loro, sembra non sappiano dove vogliono andare, e all'improvviso, per via di due o tre, o di quattro che all'improvviso escono, parole semplici, un pronome personale, un avverbio, un verbo, un aggettivo, ecco lì che ci ritroviamo la commozione che sale irresistibilmente alla superficie della pelle e degli occhi, che incrina la compostezza dei sentimenti, a volte sono i nervi a non riuscire a reggere, sopportano molto, sopportano tutto, come se indossassero un'armatura, si dice»¹.
J. Saramago, op. cit., pag. 270
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