mercoledì 30 giugno 2010

La separazione delle parti

S'ïo avessi le rime aspre e chiocce,
come si converrebbe al tristo buco
sovra 'l qual pontan tutte l'altre rocce,

io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch'io non l'abbo,
non sanza tema a dicer mi conduco;

ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l'universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.

Dante Alighieri, Inferno, XXXII, 1-9

Stamattina ho letto gli articoli de la Repubblica e de Il Foglio sulla vicenda giudiziaria di Dell'Utri.

Ciò che più mi ha colpito è vedere come di fronte a un dato certo, oggettivo (la condanna del senatore del PdL a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa fino al 1992) si possano assumere due posizioni così diametralmente opposte: l'una che sottolinea con forza il mero dato della condanna riservandosi di leggere le motivazioni della sentenza per quel che riguarda l'inconsistenza degli addebiti dopo il 1992; l'altra che, invece, mettendo in secondo piano i 7 anni di pena e la gravità per il quale sono stati prescritti, saluta con soddisfazione che «dal 1992 in poi il senatore e collaboratore di Berlusconi è assolto. Il fatto non sussiste: il mandato di strage, la famosa “entità” mafiopolitica, tutte calunnie. Dei 7 anni per “concorso in mafia” ci libererà la cassazione» (Il Foglio).

Marginalmente, come fa Giuseppe d'Avanzo, è bene ricordare ai “corifei” de Il Foglio che la Cassazione

«Non giudica sul fatto, ma sul diritto, è giudice di legittimità: ciò significa che non può occuparsi di riesaminare le prove, bensì può solo verificare che sia stata applicata correttamente la legge e che il processo nei gradi precedenti si sia svolto secondo le regole (vale a dire, che sia stata correttamente applicata la legge processuale, anche in relazione alla formazione e valutazione della prova, oltre che quella del merito della causa)»[*]

Dunque il “fatto” (la condanna) rimane ed è un fatto talmente clamoroso che chi lo accetta di buon grado e non gli dà il minimo valore farebbe meglio, secondo me, a chiamare direttamente la mafia per partecipare a concorrere esternamente alla risollevazione delle finanze nostrane: in fondo, come sa far cassa la mafia Tremonti se lo sogna la notte.

Ma non è questo il punto sul quale volevo concentrare l'attenzione.

Il punto è, secondo me, che siamo di fronte all'ennesima dimostrazione dell'incomunicabilità tra le parti e questo conferma la situazione tragicomica della politica italiana.

Certo, io non sono un terzista, e nemmeno vorrei diventarlo. Vorrei solo proporre che ogni parte, partito, fazione smettesse di convincere l'altra delle proprie ragioni e che pensasse fin dal principio a elaborare il proprio discorso politico e intellettuale solo per coloro, dei propri, che hanno orecchie per intendere, rinunciando così, di fatto, al tentativo di trovare una lingua comune dove mamma e babbo hanno lo stesso significato. Sarebbe così facile chiudersi nelle proprie stanze, nei propri salotti, nei propri giardini e, beati, raccontarsi quanto siamo più buoni, bravi, belli e giusti di quei rintronati malevoli della porta accanto! Se non fosse per quella dannata faccenda del Potere come tutto questo davvero sarebbe auspicabile! Sarebbe possibile solo se ogni parte fosse autenticamente liberale e libertaria e tenesse sempre presente che, tutte le volte ch'è chiamata a esercitare il diritto-dovere di governo della Repubblica, debba avere sempre, come unica guida, le ragioni dell'altro, anche se dell'altro non conosce la lingua. Così non è. La lotta continua. Da questi parti si fa ragionando, la lotta, anche perché non ho la forza né la voglia di imporre le mie ragioni. Ma le teste di cazzo che ci stanno governando (coi loro corifei al seguito) non la pensano esattamente come me.


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