«Sono a posto, a postissimo, la pigrizia e l'impazienza si mescolano nello sbadiglio, provo a sfilarmi la camicia senza terminare di sbottonarmi, forse senza neppure cominciare. La mano saggia il brivido svogliato della schiena, racimolando le grinze traboccanti dai pantaloni, questo gomito si piega nel conato scarsamente convinto, la mia testa è prigioniera del grigio, dovrebbe essere già fuori, ma qualcosa si è ovviamente inceppato nel meccanismo. Il popeline mi soffoca, mi costringe ad ansare, quel bottone resiste sul mio polso quasi fosse un chiodo confitto nell'osso, vano sperare che il gomito vinca l'opposizione. Ma non ho scelta, il grigio stinge, inumidito dal mio ansare, ho smarrito il senso dell'orientamento, la facoltà di verificare l'esatta posizione della mano che annaspa, del collo che si torce. Meschino gomito denigrato, il chiodo si sconfigge, il grigio mi abbandona la bocca, i buchi del naso, gli occhi, guardo il bottone sul pavimento, e non so considerarmi salvo».
Oreste Del Buono, I peggiori anni della nostra vita, Einaudi, Torino 1971
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