giovedì 4 giugno 2009

Del suicidio



Avevamo tredici-quattordici anni e, io e un mio caro amico, avremmo voluto essere lui, l'eroe di Kung-fu.

Il filosofo siciliano Manlio Sgalambro definisce il suicida: un «magnifico esecutore degli ordini del fato»; ma appunto perché si muore, ineluttabilmente, quale prigione invalicabile, quale dolore insormontabile, quale gioia suprema, portano un essere pensante alla morte? Leggiamo questa lettera, per la quale credo, in passato, lo stesso Sgalambro fu accusato di istigazione al suicidio (se non ricordo male, ma non chiedetemi le fonti, ricordo a braccio).

«Cara amica, scrive Anatol, voi mi chiedete, in nome della più spietata clarté, che mi autorizzate ad adoperare anche contro di voi, di rispondervi su una questione sempre urgente come quella del suicidio che, voi notate, non trova udienza particolare nella filosofia odierna. [...] Procurerò dunque di rispondervi, brevemente com'è decenza in queste cose. Capisco il vostro giovanile wertherismo. Ma rispondetemi: sino a che punto c'è causalità nel dolore? Ricordatevi, il dolore è una cosa passata. Il segno che resta nella coscienza mentre il corpo ha già dimenticato. Ascoltatemi, trattate i moti dell'animo come i moti dell'intestino. Un giorno bisognerà certo spararsi, ma per intanto viviamo. ("Io sono" non significa "io esisto", secondo la dabbenaggine di Descartes, ma io non mi sono ancora ucciso. Nell'epoca della fine del mondo questo è cartesianismo). Quanto al nostro discorso, sappiamo entrambi che per l'eroe morale esso è sempre possibile, egli ha sempre aperte le porte del mondo, da cui uscire come per una passeggiata. Sorride e tira alla tempia. Via autorizzo a uccidervi, sì, ma solo in un momento di gioia.»¹

Il dolore è nel ricordo, in esso vive e si trascina con noi e, terribile, si ripresenta di quando in quando con tutta la sua forza; per questo, con crudele ironia, Sgalambro ci invita a paragonare i moti dell'animo (il dolore) ai moti dell'intestino; ma ancora più terribile e sarcastico l'invito a uccidersi per realizzare la pienezza del proprio io. Suona un po' come il suicidio di Kirillov, nei Demoni, il suicidio voluto per proclamare l'Arbitrio della propria volontà alla luce della morte di Dio. «Se Dio non c'è, io sono un dio» grida il personaggio dostoevskiano sostenendo la necessità di uccidersi per proclamare con forza la propria assoluta libertà.

«“...tutta la volontà è diventata mia. Possibile che nessuno su tutto il pianeta, avendola finita con Dio e avendo posto fede nell’arbitrio, osi proclamar l’arbitrio, nel senso piú completo? È come un povero che abbia ricevuto l’eredità e si sia spaventato, e non osi avvicinarsi al sacco, stimandosi impotente a possederlo. Io voglio proclamar l’arbitrio. Sia pure da solo, ma lo farò [...]Io sono obbligato a uccidermi, perché il momento piú alto del mio arbitrio è uccidere me stesso.”»

E a chi gli chiede che esistono altri suicidi, Kirillov replica che lui sarà l'unico ad uccidersi «senza alcuna ragione, ma solo per l’arbitrio» e in questo consisterà la sua unicità. Unicità però resa impossibile dalla pretesa kirilliana di perseguire diabolicamente, un'autentica imitatio Christi. Cristo è il modello affascinante per eccellenza dei demoni. Kirillov si uccide cercando di ripetere, come un calco negativo e infernale (demoniaco appunto) il dramma della Croce.

Ma la vera via per imitare Gesù è un altra, da lui stesso indicata. Siate perfetti come perfetto è il vostro Padre nei cieli, come a dire: non imitate me, imperfetto e sconclusionato, imitate Colui che è, l'Essere di questo mondo così come è ora, frutto di una evoluzione; uno strano Essere che si trasforma e che non sa dove vada, sballottato da venti polari e interstellari. Siamo qui in questo spazio tempo, viviamo la nostra vita come possiamo, non facendo di essa una “stucchevole estranea” (Kavafis). Le nostre cellule spariscono quotidianamente, il nostro corpo si trasforma, moriamo un po' tutti i giorni. Che la nostra mente non sbatta come una farfalla contro la luce nera del nulla: questo è l'augurio, cara amica. Non fidarti troppo dei filosofi che cercano di stupire con la loro sagacia. Non sarà molto chiaro e forse sarà un po' disonesto quello che ti dico; ma preferisco porgerti un leggero inganno, come una carezza, perché so - m'illudo di sapere - che un abbraccio è più forte del secondo principio della termodinamica.

Sono addolorato, caro David, profondamente addolorato che in quella stanza d'albergo non ci sia stata nessuna mano amica a te vicino.

(P.S. del giorno dopo. Gioco autoerotico? Scusate l'ingenuità: che vuol dire? Per avere un tiramento ci si mette la corda al collo?)

1. Manlio Sgalambro, Anatol, Adelphi, Milano 1990, pag. 91-92

2 commenti:

Weissbach ha detto...

Mah, 'sta cosa mi perplime.
Del giochino pericoloso avevo appreso da uno show di George Carlin.
E' possibile, ma... usare la corda di una tenda? Non torna.
Se dovessi fare un'ipotesi, la butterei proprio sull'omicidio camuffato.

amatamari© ha detto...

Trattare i moti dell'animo alla stregua dei moti intestinali mi sembra di una saggezza illuminante.
Mi ricorda un passaggio di Vikram Chandra nel suo "Terra rossa e pioggia battente" dove si narra della stipsi e del ruolo fondamentale che ha nelle vicende dell'umanità.