«L'oscurità del mito in generale non risiede nella sua forma espressiva: si fonda da una parte sul mistero della sua origine, e dall'altra sull'importanza vitale dei fatti che il mito simboleggia. Se questi fatti non fossero oscuri, o se non ci fosse qualche interesse a oscurarne l'origine e la portata per sottrarli alla critica, non vi sarebbe bisogno di mito. Ci si potrebbe accontentare d'una legge, d'un trattato di morale, o anche d'una storiella che assolvesse il compito di riassunto mnemotecnico. Niente mito fin tanto che sia lecito attenersi all'evidenza e esprimerla in una guisa manifesta o diretta. Per contro, il mito compare allorché sarebbe pericoloso o impossibile confessare chiaramente una certa categoria di fatti sociali o religiosi, o di rapporti affettivi, che tuttavia si ha caro conservare, o che distruggere è impossibile. Non abbiam più bisogno di miti, ad esempio, per esprimere le verità della scienza: difatti le consideriamo in modo perfettamente "profano", e pertanto esse han tutto da guadagnare dalla critica individuale. Ma abbiamo bisogno di un mito per esprimere il fatto oscuro e inconfessabile che la passione è legata alla morte, e ch'essa porta con sé la distruzione per coloro che vi si abbandonano con tutte le forze. La verità è che noi vogliamo salvare questa passione, e che amiamo teneramente questa sventura ad onta che le nostre morali ufficiali e la nostra ragione le condannino. L'oscurità del mito ci pone dunque in grado di accogliere il suo contenuto dissimulato e di goderne una consapevolezza abbastanza chiara perché scoppi la contraddizione. Si riesce così a porre al riparo dalla critica certe realtà che sentiamo e intuiamo fondamentali. Il mito esprime queste realtà, a soddisfazione delle esigenze del nostro istinto, ma al tempo stesso le occulta in quanto la piena luce e la ragione le potrebbero minacciare».
Denis de Rougemont, L'Amore e l'Occidente, (Paris, 1939), trad. it. Rizzoli, Milano 1977
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