sabato 4 settembre 2010

Credere fuori luogo

Avvenire 3 settembre

Una recentissima inchiesta, pubblicata nel mese di agosto da 'Le Point' e ripresa da 'Paris Match' di questa settimana in un’intervista a Jean d’Ormesson, segnala che la divaricazione tra 'scienza' e 'fede' si allarga in Francia e che solo il 25% dei professori del Collège de France si dichiara credente. Pubblichiamo qui il testo, inedito, di Carlo Ossola in risposta a quell’inchiesta.

L'ineffabile. Credere va oltre il sapere.

«Scio» (da cui «scienza») e «ratio» (da cui «ragione») sono la base dei nostri processi di conoscenza. Nella sua origine latina, la «ratio» non è un fondamento ma una misura, uno strumento di comparazione tra le cose, un mezzo per «metterle in rapporto», per valutare i legami e le proporzioni tra esse e per metterci in condizione di manipolare, in maniera congrua ed efficace, gli oggetti. Ciò che noi sappiamo è quasi soltanto ciò a cui perveniamo con la nostra capacità di misura… È dunque necessario ammettere – poiché «l’uomo è più grande che l’uomo» (Erasmo) – che ciò che va aldilà della nostra misura esista altrettanto quanto ciò che rientra nelle nostre capacità di commisurare. Si tratta di un principio fondamentale della filosofia, da Anselmo di Aosta a Pascal: altrimenti noi saremmo in un pericolo costante di «reificazione» delle nostre conoscenze (ciò che oggi accade con un neopositivismo bisognoso di «localizzare» ogni minima traccia espressiva, emozioni comprese). Tale principio di «vagueness» (Peirce), d’«interminato» (Leopardi) è fecondo poiché ci permette di uscire dal «ritaglio» della «precisione» (come se, per sapere, occorresse 'star dentro' un confine sempre meglio circoscritto) e di liberarci verso l’incommensurabile, l’invisibile, l’incircoscrivibile. È un principio di libertà al quale è impossibile rinunciare senza ridurre l’uomo a una macchina di azioni-reazioni governabili (e, in definitiva, orientabili…) «Credere» è l’espressione più antica, la più semplice e netta, di tale condizione umana: dal suo fondo l’uomo continuamente «deborda», poiché è «incontenibile».

Penso, personalmente, che «credere» costituisca un supplemento di resistenza a tutto ciò che ci spinge a piegarci davanti alle cose così come sono. È un atto politico, che ci permette di pensare e operare per una società più degna, un futuro più abitabile, anche se noi non disponiamo di «alcun potere per misurare» gli effetti e la «redditività» di siffatto agire generosamente libero.

L’assenza di questa speranza fornita dal credere è ciò che umilia il nostro presente, e le nostre comunità, ripiegate – invitate a ripiegarsi – su se stesse.

«Credere» è più esigente che «sapere»: esso ci obbliga a prendere a nostra responsabilità anche ciò che non saremo mai in grado di comprendere o realizzare, e a non dimenticare che il «reale» non è che una piccola porzione del pensabile, dell’immaginabile, di tutto ciò che non ha lasciato traccia.

Credere è: «dar luogo».


Potrei rimandare il lettore al mio post precedente e chiuder qui la questione. Ma invece no, Carlo Ossola, l'insigne filologo del Collège de France, ha scritto qualcosa che provoca in me un leggero sussulto di ribellione. Come si fa a dire che “credere” possa costituire «un supplemento di resistenza a tutto ciò che ci spinge a piegarci davanti alle cose così come sono» e non aver in mente che “a piegarsi” alle cose presunte sante sono proprio i credenti? Chi s'inchina davanti al Papa? Chi s'inginocchia davanti al confessore? Chi si prostra in direzione de La Mecca? Il non religioso? Il non credente?

Concedo però interamente al professore che credere sia «un atto politico»; infatti, è soprattutto questo e non altro. Ma la religione, la credenza è un fare politico illegittimo perché regola le sorti dell'uomo riferendosi a un immaginario sopramondo di cui solo particolari uomini (i chierici) possiedono le chiavi. Nella fede non si vota o, se lo si fa, lo fanno solo in pochi e a conclave chiuso per meglio farsi ispirare dallo spirito divino. La democrazia è un oggetto troppo fallibile per le certezze della fede, ma è anche lo strumento migliore che permette alle varie credenze di rivendicare i propri diritti e d'insinuarsi nel corpo democratico come un parassita (metafora della zecca di origine malviniana).

Ossola più sopra parla del principio della vagueness o dell'interminato come fondamento della libertà umana. Ciò può essere concesso fintanto che una fede non s'impossessi di tale principio per farne il fondamento da cui trarre una concreta dottrina. Se invece l'uomo “sta” dentro sé (non “esce” da sé) per governare le cose del mondo, abitando la realtà e la realtà soltanto, nei suoi limiti e nei suoi confini, più difficile sarà per lui la tentazione di misurare l'uomo con un metro diverso dal proprio volto.

Infine (e chiudo perché mi si chiudono gli occhi dal sonno), il reale sarà anche una «piccola porzione del pensabile», ma è l'unica e sicura sulla quale fare affidamento per trovare una lingua comune, una mano da stringere, un patto da sottoscrivere tenendo da conto della propria finitudine.


1 commento:

Weissbach ha detto...

Una piccola porzione del pensabile.
E per fortuna; questi sono capaci di pensare anche l'inferno; ti sembra sano?