martedì 7 settembre 2010

Il Fuoco sacro. Introduzione (iii)

«Coriaceo come non mai, il mortale. Primo Levi riporta che nel corso di una selezione per la camera a gas sente il suo vicino mormorare una preghiera a “Giuseppe”. Egli ci mise un po' di tempo per capire che si trattava di Stalin e non del padre terreno di Gesù. In mancanza di meglio, ci si accontenta di quel che si ha. Dopo centomila anni, tutti gli idoli creati dal sapiens nella notte dei tempi si sono verificati coi piedi d'argilla, non ci sono che nani consumatori (noi) di giganti che siano inossidabili. Si trova in ogni latitudine quest'uomo che ci dà fiducia – sia esso bigotto o senza Dio, topo di città o di campagna o del deserto. E l'idolatra si mostra mille volte più resistenze dei suoi idoli. Se fosse mai esistito, Giacobbe il Patriarca non avrebbe creduto in Dio (con la maiuscola, giacché il Protettore della sua tribù ammetteva che ciascuno avesse il suo di Dio). Salomone si preoccupava dell'inferno come della sfortuna (lo sheol ebraico è un luogo neutro senza ricompensa né castigo postumo). Il re David rimase stupito di avere un'anima. Si sarebbe accontentato di un soffio vitale, come le altre creature (ignorata dagli antichi Semiti, la nozione di anima immateriale e immortale è di origine greca). E l'outsider di Nazareth non avrebbe compreso la parola “cristiano”. Tanto più che questo fariseo un po' stregone, come altri rabbini, è vissuto, nel senso letterale e teologico del termine, da “figlio di Dio”, inconcepibile blasfemia per un ebreo messianico (in aramaico, “figlio di Dio” era una metafora per “servitore di Dio”). Queste note non insegnano niente ai biblisti; esse ci ricordano soltanto quanto l'intangibile sia precario. Noi antidatiamo le nostre convinzioni (Budda, Satana, l'anima, il Cristo...) per dar loro più autorità possibile, la quale esige sempre che il capo o la sorgente siano mantenuti lontani sia dai loro subordinati che dalle loro foci. Noi inventiamo delle origini infalsificabili per dar credito ai nostri credo, giacché esse ci consentono di dimenticare che i nostri punti fissi si spostano con noi nel tempo (è il bisogno del punto fisso che non si sposta e resta, appunto, fisso). Non bisognerebbe che le grandi querce di Mamre, ad Ebron, sotto le quali Abramo piantò la sua tenda e dove festeggiò i tre inviati del Mistero, ci dissimulino l'ombrosa foresta degli idoli resuscitati che si è rimessa in cammino, come il grande bosco di Birnan non avanzò verso l'alto colle di Dunsinane contro Macbeth. Questo egocentrismo filosofico fuorviato dall'apparente disintegrazione del sociale e del religioso “tipica delle società occidentali” – ci rende sordi alla polifonia mondiale e della rinascita religiosa e del God bless America dell'impero d'Occidente. Coloro che scommettono sulla defezione delle credenze farebbero bene a riaprire i loro atlanti. Una religione che non si confronta non inquieta – e, solo per questo, può suscitare qualche inquietudine nelle sue periferie. Come il fatto che la religione della democrazia si creda aldilà della religione. La presunzione di autosufficienza degli europei narcisisti impedisce d'interrogare la credulità stessa (o la nostra disposizione a credere). La presa di distanza da se stessi è quanto v'è di più difficile. Che vi sia più di una via di accesso alla salvezza è un fatto ammesso come legittimo presso i cattolici e, da un po' di tempo, persino dalla Congregazione per la dottrina della fede. Di contro, resta un enigma ciò che spinge il perenne insoddisfatto a deporre la sua armatura per lanciarsi su una o un'altra Via – fu ciò che la spiritualità laica rivendicò per l' “uomo-dio” – senza stancarsi mai di raggiungere l'obiettivo. Benché sia comune al teologo e all'antropologo, questi due concorrenti, di solito, si guardano sempre in cagnesco, ciascuno crede di detenere la chiave che apre la porta dell'altro. Nella penombra, invece, dovrebbero piuttosto aiutarsi a vicenda. Gli dèi e gli uomini potrebbero così darsi una mano...
Non sogniamo infatti una società in cui l'uomo sia fratello all'uomo e non lupo? Non siamo stanchi della bomba e del coltello? Non siamo inquieti per la nostra identità, ansiosi per la paura che qualcuno ce la rubi? Ma il nostro voto più ardente, aldilà di ogni manicheismo, non è di vedere tutta l'umanità unirsi – “la specie umana come un solo popolo”? Ora, dei quattro punti di questo programma comune a tutti gli uomini di buona volontà – pur apparendo tra loro contraddittori – le religioni positive non hanno fatto più che dissertare o di interrogarsi. Esse hanno sperimentato. Si può ignorare queste fonti pratiche di informazione? Per l'ingenuo sognatore che dorme dentro noi con un occhio solo [mentre l'altro occhio s'ostina a stare sveglio], attaccato a ciò che si dice piuttosto che a quel che succede, il fatto religioso ha questo d'istruttivo: che esso confronta il sogno con la realtà. Meglio delle nostre brevi fiammate ideologiche, questo analizzatore, questa lente antropologica ancora sotto-utilizzata dovrebbe aiutarci a non regolare l'ordine del mondo sui nostri desideri».

Régis Débray, Le Feu sacré, Fayard, Paris 2003. Pag. 16-17 ( trad. mia)

P.S.
Un'ora e mezzo per tradurre queste due pagine: una fatica bestia ripagata però da certi passaggi che trovo sublimi. È un osso duro Debray. Vi saranno certo errori e passaggi da rivedere. Faccio del mio meglio. Il passaggio in corsivo è preso da Macbeth direttamente ché la similitudine debrayana era ostica come dormire sotto le querce del Mamre.

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