Tutto ha un limite, compresa la tristezza.
S'impiglia lo sguardo alla finestra, come alla palizzata
la foglia. Puoi versare acqua, scuotere chiavi.
Solitudine è l'uomo al quadrato. Il dromedario
così fiuta, ingobbendosi, il binario.
Si scosta il vuoto, come una portiera.
E cos'è poi lo spazio, in generale, io
dico? Assenza di corpo in ogni punto.
Per questo Urania è più vecchia di Clio.
Di giorno, e al lume di lumini ciechi,
vedi che non nasconde nulla: cerchi
di guardare il globo, e guardi una nuca.
Eccoli, i boschi pieni di mirtillo,
fiumi dove si pesca a mano lo storione,
una città che non ti annovera più
nell'elenco del telefono. E a sud
anzi a sud-ovest, ecco montagne brune,
e vagano nel càrice* cavalli, prževali,
si fanno gialli i visi. Poi, più in là, corvette
navigano e si fa azzurro lo spazio,
come una biancheria con i merletti.
Iosif Brodskij, Poesie, Adelphi, Milano 1986 (traduzione di Giovanni Buttafava)
*Noticina a margine.
Io non conosco il russo e non conoscevo la parola càrice.
Ho cercato su google e non ho trovato dizionari disponibili a definire il termine.
Solo ho trovato che tal parola viene usata in Anna Karenina ove mi pare indicare un luogo palustre. E in tal brano il traduttore la rende come termine femminile: la càrice. Vedasi qui al cap. X.
1 commento:
Bella poesia, come del resto tutte quelle che decidi di pubblicare.
Ania
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