«L'uso di termini come autoritarismo e totalitarismo nel caso [Berlusconi] viene spesso bollato come manifestazione di un allarmismo ingiustificato e controproducente o anche di una mancanza di senso storico. Quando non è il frutto di conformismo, questo atteggiamento discende da un equivoco. È chiaro che i due termini possono essere applicati solo a patto di mettere l'accento sulle forti differenze di significato rispetto ai loro usi classici. Autoritarismo ad esempio non può significare, in questo caso, uso prevalente della forza repressiva dello Stato o limitazione legislativa del diritto di manifestazione del dissenso. Ancor più bisognoso di cautele è il termine totalitarismo, invariabilmente legato ai modelli storici a cui si deve la sua stessa genesi, anche se non bisogna perdere di vista la distinzione tra totalitarismo come sistema politico compiuto e mentalità totalitaria. In questo senso è possibile cogliere il delinearsi di una vocazione in senso lato totalitaria all'interno del percorso e del discorso politico berlusconiano. Per esempio nella predilezione per la possibilità di emettere messaggi senza contraddittorio o con interlocutori compiacenti: una costante della sua presenza nella politica fin dagli esordi, che lo spinge ad aspirare al controllo il più possibile pervasivo dei canali di comunicazione. Oppure nella sua pretesa di interpretare, in quanto partito e in quanto persona, non una parte ma il tutto, ossia l'Italia in quanto tale. Si spiega così il rifiuto, non solo tattico o strumentale, di usare la parola partito per designare il suo raggruppamento, sostituendola con la parola popolo. Di qui l'idea, chiaramente espressa a parole e nei comportamenti, che gli oppositori, e persino coloro che manifestano un dissenso nelle sue file in quanto pretendano di tener ferme le proprie posizioni, siano non semplici avversari, ma nemici del popolo, anti-italiani, autori di complotti, eversori».
Antonio Gibelli, Berlusconi passato alla storia, Donzelli, Roma 2010 (pag. 81-82)
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